6 agosto 2015 – CDT

Se dico che non voglio vedere burqa e niqab sulle nostre strade rischio di essere definito islamofobo, ma veramente io volevo solo dire che nascondere il viso in luogo pubblico non fa parte di una cultura aperta come la nostra, volevo dire che, come capitato pochi giorni fa nell’attentato di Suruc, sotto il burqa potrebbe esserci un terrorista e non una donna.

Ho sempre pensato e penso tuttora che chi va in un Paese che non è il suo debba adattarsi agli usi e costumi che vi trova, visto che, oltretutto, nessuno lo obbliga ad andarci. Io non andrò mai in Arabia Saudita poiché non mi va di dovermi togliere l’orologio con la Stella di Davide che porto al braccio e non mi va di non potermi portare nel bagaglio a mano la Bibbia che mi piace avere con me e leggere ogni giorno. Semplice, no?

Ho, però, l’impressione che gran parte degli stranieri che giungono o risiedono da noi sarebbero disposti ad adattarsi alle nostre consuetudini e, anzi, lo fanno già.

Ma allora, dov’è il problema? Il problema siamo noi, o meglio, sono i fautori del politicamente corretto, dell’apertura ad ogni costo. Se, quasi quasi, mi devo vergognare di andare (molto) fiero della mia identità di svizzero e di credente è perché tutto ciò che è in relazione con questi due aspetti della nostra identità, svizzero e credente, è diventato oggetto di critica e disapprovazione: si vuol cambiare l’inno nazionale perché il salmo svizzero ha, appunto, il difetto di essere un salmo; dà fastidio che il neo-presidente del Gran Consiglio abbia (giustamente e coraggiosamente) osato leggere una preghiera nel suo discorso d’insediamento; bisogna togliere i crocefissi dalle aule scolastiche; bisogna stare attenti a non offendere chi è d’altra religione e cultura e quindi evitare di fare il presepe nelle scuole; bisogna abolire la lezione di religione confessionale …

Ma non sono gli stranieri a chiedere queste cose! È per esempio la cosiddetta Società svizzera di pubblica utilità che vuole cambiare l’inno nazionale, sono i liberi pensatori a cui dà fastidio il crocifisso, sono alcuni deputati, in particolare dell’area progressista, che hanno storto il naso alla preghiera del presidente del Gran Consiglio.

Cosa dovremo o dovremmo ancora fare in nome del politicamente corretto? Cambieremo la moneta da 5 franchi perché porta la scritta «Dominus providebit»? Cambieremo la bandiera perché in mezzo c’è una croce? Rinnegheremo il patto del Grütli perché è stato stipulato nel nome del Signore? Modificheremo di nuovo la Costituzione perché il preambolo inizia con le parole «Nel nome di Dio onnipotente»? Io mi auguro e prego che questa deriva cessi e che tutto ciò che è stato, per secoli, una tradizione ed un vanto per il nostro Paese rimanga tale. Ma i segnali sono sconfortanti. Il problema non sono gli stranieri che giungono da noi; siamo noi che abbiamo abbandonato la fede ed i valori con i quali i nostri padri hanno costruito e modellato il nostro Paese, la nostra democrazia, la nostra società e quindi non siamo più in grado di affermare e difendere questi valori poiché chi arriva da lontano è spesso ben convinto e radicato nelle sue convinzioni e nella sua cultura, mentre noi abbiamo abbandonato l’identità giudeo-cristiana sulla quale è stato fondato ed è passato indenne attraverso i secoli il nostro Paese. A costo di passare per bigotto cito un versetto dal Salmo 33: «Beata la nazione il cui Dio è il Signore»; in Ticino e in Svizzera la grande maggioranza della popolazione si dichiara cattolica o protestante, dunque cristiana. Ma chi se la sente di condividere il versetto biblico che ho citato?

Edo Pellegrini, Presidente UDF Ticino